San Carlo: ecco i Leoni d’Oro di Rovato. Venerdì 4 novembre la consegna.

rrTorna il patrono di Rovato, San Carlo Borromeo, venerdì 4 novembre 2016.

Come ogni anno, il Consiglio comunale straordinario, convocato alle ore 17, consegnerà Leoni d’Oro e benemerenze, i massimi riconoscimenti cittadini della capitale della Franciacorta.

Quest’anno, la scelta è caduta su rovatesi che si sono fatti valere nel campo della musica.

I due Leoni d’Oro di Rovato saranno consegnati a:

  • Domenico Clapasson: maestro diplomatosi al Conservatorio Luca Marenzio di Brescia, dove oggi è titolare della cattedra di pianoforte principale oltre che anima di Aldebaran Music Festival. Clicca qui per la biografia.
  • Domenico Lazzaroni: primo trombone di numerose orchestre italiane ed estere, oltre che titolare della cattedra di tromba e trombone al Conservatorio di Udine. Clicca qui per la biografia.

Le tre benemerenze andranno a:

  • Fabio Fontana: diplomato in corno nel 2005  al Conservatorio Luca Marenzio di Brescia, oggi affermato strumentista a livello nazionale. Clicca qui per la biografia.
  • Lucia Guarino: enfant prodige della scuola di musica e armonia rovatese Heinrich Strickler
  • Alessandro Marchi: anima del Civico Corpo Bandistico Luigi Pezzana ormai da 70 anni, come strumentista, consigliere e presidente onorario, oggi è ancora membro del cda della Pezzana

La cerimonia di consegna dei riconoscimenti, come sempre aperta al pubblico, è fissata per le ore 17 di venerdì 4 novembre nel Salone del Pianoforte, al primo piano del Municipio di via Lamarmora, 7 a Rovato.

A seguire, la messa nella Parrocchia Santa Maria Assunta.

SAN CARLO BORROMEO – Le iniziative si svolgono nella giornata del patrono di Rovato, San Carlo Borromeo.

La biografia del Santo (da wikipedia.it):

Carlo Borromeo (Arona, 2 ottobre 1538Milano, 3 novembre 1584) è stato un arcivescovo cattolico e cardinale italiano.[1] È stato canonizzato nel 1610 da papa Paolo V.

San Carlo è considerato tra i massimi riformatori della chiesa cattolica nel XVI secolo assieme a sant’Ignazio di Loyola e a san Filippo Neri, guidando il movimento della Controriforma in contrapposizione alla riforma protestante. Tra le riforme di maggior importanza da lui proposte ed accettate dal Concilio di Trento, vi fu l’istituzione dei seminari per la formazione dei presbiteri e la loro educazione.

In un secolo in cui l’altezza media degli uomini non superava il metro e sessantacinque, Carlo Borromeo era alto più di un metro e ottanta. Così lo descrive Federico Rossi di Marignano[2]: non solo era molto alto, ma era anche di corporatura robusta. I digiuni di Carlo Borromeo negli ultimi anni di vita non consistevano nell’astinenza assoluta dal cibo, ma invece, secondo l’uso ecclesiastico antico, nel consumare un solo pasto al giorno, dopo il vespro, osservando la raccomandazione di Ambrogio e di Agostino di destinare ai bisognosi il denaro risparmiato con il digiuno. Tuttavia, sembra che pur astenendosi da cibi costosi e cibandosi di un alimento comune e povero come il pane, Carlo l’assumesse «in assai quantità».

Carlo Borromeo portò sempre la barba, anche se la vasta iconografia seicentesca lo raffigura rasato; cominciò infatti a radersi solo nel 1576, al tempo della peste, e mantenne il volto rasato in segno di penitenza durante gli ultimi otto anni di vita[3].

Nipote del papa (la madre Margherita de’ Medici era sorella di Pio IV, al secolo Gian Angelo de’ Medici), il Borromeo fu da lui nominato cardinale e segretario privato quando aveva poco più di vent’anni. In tale veste il giovane Carlo partecipò ai lavori del Concilio di Trento, divenendone protagonista proprio nel periodo conclusivo.

Dopo la morte dello zio, nel 1566 Carlo Borromeo si trasferì da Roma a Milano, attuando nella diocesi ambrosiana i dettami tridentini e vivendo in ascetica povertà. Carlo dedicò la sua azione pastorale alla cura delle anime e alla moralizzazione dei costumi, promuovendo oltre al culto «interiore» anche il culto «esteriore» – riti liturgici, preghiere collettive, processioni – ravvivando in tal modo la fede, l’identità e la coesione sociale soprattutto dei ceti più popolari[4]. Riformò la diocesi, nella quale la disciplina ecclesiastica era «del tutto persa», perché da quasi un secolo gli arcivescovi titolari, risiedendo altrove, l’avevano abbandonata a se stessa limitandosi a goderne le rendite. Carlo affrontò «contrasti tanto grandi […] et da persone tanto potenti che havriano impaurito ogni grand’animo». Nell’attuare i decreti tridentini il Borromeo si espose infatti alla reazione di coloro che vedevano lesi i propri privilegi: fu contrastato dai governatori spagnoli e dal Senato milanese, minacciato con i bastoni dai frati minori osservanti, aggredito con le spade dai canonici di Santa Maria della Scala, minacciato dalle monache di Sant’Agostino, vilipeso da quelle di Lecco e colpito con una archibugiata alla schiena da un sicario dell’ordine degli umiliati.

Figlio di Gilberto II Borromeo e Margherita Medici di Marignano, sorella di papa Pio IV, Carlo Borromeo era il giovane rampollo della nobile e potente famiglia lombarda dei Borromeo. Egli nacque il 2 ottobre 1538, di venerdì, tra le 8 e le 9 di mattina, nel Castello di Arona, nella stanza detta all’epoca “dei Tre Laghi” ed oggi detta “di san Carlo” in suo onore. Venne battezzato poco dopo nella chiesa parrocchiale di Arona.

Studiò a Milano materie umanistiche sotto la guida di frate Giacomo Merula e poi diritto canonico e civile a Pavia sotto la guida del futuro cardinale Francesco Alciato, dove si laureò in utroque iure il 6 dicembre 1559 e dove successivamente creò nel 1564 una struttura residenziale per studenti universitari di scarse condizioni economiche ma con elevati livelli di preparazione e attitudine allo studio; istituto che da lui prese il nome di Almo Collegio Borromeo, oggi il più antico e prestigioso collegio storico di Pavia e tra i più antichi d’Italia.

A Milano ricevette quindi l’abito clericale e la tonsura per mano del vescovo di Lodi, Giovanni Simonetta, il 13 ottobre 1547. All’età di circa dodici anni, per rinuncia di suo zio Giulio Cesare Borromeo, ottenne in affidamento l’abbazia di San Leonardo di Siponto nella provincia di Manfredonia, con l’ufficio e la dignità di abate commendatario, il reddito della quale fu da lui devoluto interamente per la carità verso i poveri. Divenne nel contempo anche commendatario delle abbazie dei Santi Felino e Graziano ad Arona (20 novembre 1547), di San Silano di Romagnano (10 maggio 1558) e priore commendatario di Santa Maria di Calvenzano (8 dicembre 1558).

Nel 1558 morì suo padre. Pur avendo un fratello maggiore, il conte Federico Borromeo, a Carlo fu richiesto dai parenti di prendere il controllo degli impegnativi affari di famiglia.

Il 25 dicembre 1559 lo zio materno, Giovan Angelo Medici di Marignano, venne eletto papa con il nome di Pio IV e chiamò a Roma i suoi nipoti Federico e Carlo Borromeo per renderli suoi stretti collaboratori nell’amministrazione degli affari della chiesa. Il 13 gennaio 1560, Carlo Borromeo venne nominato protonotario apostolico partecipante e referendario della corte papale. Il 22 gennaio successivo venne ammesso quale membro della consulta per l’amministrazione dello Stato Pontificio entrando così nel pieno della gestione statale e “laica” dei possedimenti del papa. Dal 27 gennaio di quello stesso anno divenne anche abate commendatario di Nonantola, San Gallo di Moggio, Serravalle (o della Follina), Santo Stefano del Corno, una in Portogallo ed una nelle Fiandre.

Nel concistoro del 31 gennaio del 1560, venne subito creato dallo zio cardinale diacono e ricevette la berretta ed il titolo dei Santi Vito e Modesto il 14 febbraio successivo. Venne nominato amministratore dell’arcidiocesi di Milano dal 7 febbraio di quello stesso anno e quindi legato pontificio a Bologna e in Romagna per due anni dal 26 aprile 1560. Il 4 settembre del 1560 optò per il titolo cardinalizio di San Martino ai Monti.

Orientato ormai definitivamente alla carriera ecclesiastica per convenienza ed orientamento personale, iniziò il proprio percorso presbiteriale ricevendo il suddiaconato ed il diaconato il 21 dicembre del 1560 direttamente dal papa e poco dopo venne nominato Segretario di Stato, una delle massime cariche nell’amministrazione dello Stato della Chiesa. Dal 1º giugno 1561 venne nominato governatore di Civita Castellana e di Ancona, nonché proclamato cittadino onorario di Roma. Nel 1562 fondò l’Accademia Vaticana, di ispirazione arcadica, e dal 1º dicembre di quello stesso anno divenne governatore di Spoleto e membro del Sant’Uffizio.

Nel 1562 Federico morì improvvisamente e quindi a Carlo fu consigliato di lasciare l’ufficio ecclesiastico, di sposarsi ed avere dei figli, per non estinguere la dinastia familiare, ma Carlo preferì proseguire la propria missione ecclesiastica ed il 4 settembre 1563 venne ordinato sacerdote per mano del cardinale Federico Cesi nella basilica romana di Santa Maria Maggiore. Ereditò comunque il titolo di principe di Orta che spettava alla sua famiglia.

San Carlo sfruttò la propria influenza come segretario di stato pontificio per riaprire il Concilio di Trento al quale prese parte direttamente nelle sessioni del 1562-1563, i cui decreti finali vennero confermati dal pontefice nel concistoro del 26 gennaio 1564. Durante queste ultime delicate fasi, il Borromeo intervenne direttamente perorando la causa cristiana nella visione della messa come vero e proprio sacrificio di Cristo riproposto ad ogni celebrazione, contrastando la visione protestante secondo la quale l’eucarestia sarebbe solo il ricordo dell’ultima cena. Sempre su impulso di san Carlo vennero approvati i decreti relativi agli ordini sacri ed all’istituzione dei seminari, giungendo a toccare temi importanti e molto sentiti all’epoca come il valore del matrimonio ed il celibato sacerdotale, pratica a cui il cardinale diede largo spazio personale

Intanto il 7 dicembre 1563 era stato consacrato vescovo nella Cappella Sistina per mano del cardinale Giovanni Antonio Serbelloni, assistito da Tolomeo Gallio, arcivescovo di Manfredonia, e da Felice Tiranni. Poco dopo divenne presidente della commissione di teologi incaricati dal papa sul finire dell’anno di elaborare il Catechismus Romanus assieme a grandi personaggi della controriforma come San Pietro Canisio, San Turibio da Mogrovejo e San Roberto Bellarmino; lavorò nel contempo per la revisione del messale e del breviario nonché della musica da utilizzarsi durante la messa, supportando in quest’ultima ottica la carriera del milanese Orfeo Vecchi.

Preconizzato arcivescovo di Milano il 12 maggio 1564 (dove già svolgeva la funzione di amministratore apostolico per conto dello zio), incontrò in questa nomina l’opposizione di Ippolito II d’Este che già aveva svolto nella diocesi la carica di amministratore e che sembrava il candidato favorito a succedere come arcivescovo effettivo dopo la salita al soglio pontificio di Giovanni Angelo Medici di Marignano.

Il Borromeo, ad ogni modo, venne poco dopo nominato governatore di Terracina (3 giugno) ed arciprete della basilica romana di Santa Maria Maggiore (ottobre 1564). Optò quindi per il titolo presbiteriale di Santa Prassede (17 novembre 1564) e gli venne garantito dal pontefice il titolo di conte palatino. Prefetto della Sacra Congregazione per il Concilio di Trento, mantenne la carica dal 1564 al settembre del 1565 quando venne nominato legato a Bologna nonché vicario generale spirituale per tutta l’Italia (17 agosto 1565). Penitenziere maggiore dal 7 novembre del 1565, rimase in questa carica sino al 12 dicembre del 1572.

Pur con la morte dello zio pontefice nel 1565, rimase uno dei principali personaggi influenti nella chiesa: prese parte al conclave del 1565-1566 che elesse papa Pio V; lasciò il conclave poco dopo l’elezione del papa a causa di un malessere, ma chiese al nuovo pontefice di prendere il nome di Pio.

Nel 1560 il papa assegnò a Federico Borromeo (nonno di Carlo, da non confondere con suo cugino) il marchesato di Oria che passò nel 1563 a Carlo. Questi nel 1568 lo vendette e con i proventi aiutò le persone meno abbienti di Milano. Dopo la morte dello zio papa, nel 1566, lasciata la corte pontificia, prese possesso dell’arcidiocesi di Milano, nella quale da circa ottant’anni mancava un arcivescovo residente e nella quale si era radicata una situazione di pesante degrado. Fu questa l’occasione per Carlo Borromeo di sperimentare le nuove norme del concilio di Trento e Milano si presentava ai suoi occhi un ottimo esempio per l’Italia ed il mondo intero: in breve tempo ristabilì la disciplina nel clero, negli ordini religiosi maschili e femminili, dedicandosi al rafforzamento della moralità dei sacerdoti e alla loro preparazione religiosa fondando, secondo le direttive del Concilio tridentino, i primi seminari: il seminario maggiore di Milano, il seminario elvetico e altri seminari minori. Per la sua opera riformatrice si servì anche dell’opera degli ordini religiosi (gesuiti, teatini, barnabiti), fondando la congregazione degli Oblati di Sant’Ambrogio (1578).

Negli anni del suo episcopato, dal 1566 al 1584, si dedicò alla diocesi milanese costruendo, rinnovando e promuovendo chiese (tra le più rilevanti i santuari di dell’Addolorata a Rho, della Beata Vergine dei Miracoli di Corbetta, del Sacro Monte di Varese, oltre a San Fedele a Milano ed alla chiesa della Purificazione di Maria Vergine in Traffiume); si impegnò nelle visite pastorali; curò la stesura di norme importanti per il rinnovamento dei costumi ecclesiastici. Instancabile visitatore, la sua azione pastorale fu minuziosa e si apprestò a visitare anche i borghi più remoti della sua arcidiocesi, allargandosi anche all’istruzione del laicato con la fondazione di scuole e collegi (quello di Brera, affidato ai gesuiti, o il Borromeodi Pavia). Tra i suoi grandi meriti vi fu quello di obbligare i parroci delle parrocchie del milanese a tenere dei registri aggiornati e precisi circa i battesimi, i matrimoni e le morti dei fedeli, uno dei primissimi passi al mondo nel tentativo di stabilire i diretti antenati delle moderne anagrafi. Le riforme da lui promosse nell’arcidiocesi di Milano vennero raccolte nei cosiddetti Acta Ecclesiae Mediolanensis.

Si impegnò in opere assistenziali in occasione di una durissima carestia nel 156970 e, soprattutto nel periodo della terribile peste del 15761577, detta anche “peste di San Carlo“. Assai noto è l’episodio della processione organizzata dal santo per chiedere l’intercessione affinché il morbo si placasse, fatta a piedi nudi, con in mano la reliquia del santo chiodo inserita in una croce lignea appositamente costruita. Incredibilmente, il morbo si placò e ciò fu interpretato da molti come una manifestazione della santità dell’arcivescovo.

Papa Gregorio XIII gli garantì i permessi necessari per stabilire la congregazione degli oblati di Sant’Ambrogio il 26 aprile 1578 e fu lui a celebrare la prima comunione di Luigi Gonzaga, futuro santo gesuita, il 22 luglio del 1580.

Durante gli anni della sua reggenza della cattedra episcopale milanese, molti inglesi cattolici lasciarono la patria d’origine alla volta dell’Italia a causa delle persecuzioni religiose perpetrate dalla regina protestante Elisabetta I. Il Borromeo ricevette proprio in questa occasione i gesuiti Edmund Campion e Ralph Sherwin a Milano nel 1580, ai quali concesse udienza ogni giorno per otto giorni prima della loro partenza alla volta dell’Inghilterra con l’intento di tornare ad evangelizzare. Promosse largamente il culto di San John Fisher il quale, assieme a san Tommaso Moro, era stato uno dei martiri per la fede cattolica sotto il regno di Enrico VIII.

Attuando nella diocesi di Milano la riforma tridentina si scontrò contro le resistenze dei governatori spagnoli, del senato e dei nobili.[5].

Diversi storici, tra i quali Marco Formentini danno un giudizio fortemente negativo sull’operato di Carlo Borromeo. Il Formentini nella sua opera La dominazione spagnuola in Lombardiasostiene la tesi secondo la quale la decadenza economica di Milano e della Lombardia siano state acuite dall’attuazione, da parte di Carlo Borromeo (in contrasto con le autorità municipali, ma spesso con il beneplacito delle autorità spagnole), di un programma politico di ispirazione gesuitica, avente il fine di attuare la Controriforma sino alle sue estreme conseguenze. Milano avrebbe quindi rappresentato un esperimento sociale, nel quale, con misure sempre più restrittive, il campo dell’iniziativa economica ed individuale diveniva sempre più angusto e malagevole.

Per ordine del papa Pio V procedette alla riforma del potente ordine religioso degli Umiliati le cui idee si erano distanziate dalla Chiesa cattolica approssimandosi verso posizioni protestanti e calviniste. Quattro membri di quest’ordine attentarono alla sua vita. Uno di loro, Gerolamo Donati, detto il Farina (originario di Astano[6]), gli sparò un colpo di archibugio nella schiena il 22 ottobre 1569, mentre Carlo Borromeo era inginocchiato a pregare nella cappella dell’arcivescovado. Il colpo lo ferì solo leggermente e in ciò si vide un evento miracoloso. Nella causa di canonizzazione del Borromeo si cita: «e circa mezz’ora di notte (verso le 22) va il manigoldo nell’Arcivescovado, e ritrovando il Cardinale inginocchiato nell’oratorio con la sua famiglia in oratione, secondo il suo solito, gli sparò nella schiena un archibuggio carico di palla e di quadretti, i quali perdendo la forza nel toccar le vesti non fecero a lui offesa veruna, eccetto che la palla, che colpì nel mezzo della schiena: vi lasciò un segno con alquanto tumore (gonfiore)».

Carlo non avrebbe voluto che i suoi attentatori fossero perseguiti, ma le autorità civili e un inquisitore inviato a Milano da papa Pio V procedettero secondo le leggi civili ed ecclesiastiche. Quattro responsabili dell’attentato alla sua vita furono arrestati e giustiziati secondo le leggi in vigore. L’ordine degli Umiliati fu soppresso e i beni furono devoluti ad altri ordini; in particolare, i possedimenti a Brera furono assegnati ai Gesuiti e furono finanziate opere religiose come le costruzioni del collegio Elvetico e della chiesa di San Fedele[7].

Nonostante le Diete di Ilanz[8] del 1524 e del 1526 avessero proclamato la libertà di culto nella Repubblica delle Tre Leghe[9] in Svizzera, egli combatté il protestantesimo nelle valli svizzere, imponendo rigidamente i dettami del Concilio di Trento. Nella sua visita pastorale in Val Mesolcina[10] in Svizzera fece arrestare per stregoneria oltre 150 persone. Dopo le torture quasi tutti abbandonarono le fede protestante, salvandosi così la vita; 12 donne ed il prevosto furono invece condannati al rogo nel quale furono gettati a testa in giù.[11][12].

Con l’intento di rispondere alle sempre crescenti pressioni della riforma protestante, il Borromeo incoraggiò Ludwig Pfyffer nello sviluppo della sua Lega d’Oro (definita anche Lega Borromeiana), ma non ne vide la formazione che ebbe luogo ufficialmente nel 1586. Con base a Lucerna, essa si impegnava a giudicare e ad espellere gli eretici, ma creò non pochi problemi all’amministrazione civile della confederazione elvetica, in particolare nell’Appenzello.

Lo “Scurolo di San Carlo” sotto l’altare del Duomo di Milano, che dal XVII secolo accoglie le spoglie del santo arcivescovo milanese.

Scampato alla peste, fu comunque indebolito in salute negli ultimi suoi anni e rimase in cura costante del suo medico personale Bartolomeo Assandri. Il 2 novembre 1584, l’arcivescovo Borromeo, febbricitante e di ritorno da una visita pastorale sul Lago Maggiore, tornò a Milano scendendo il Naviglio Grande, a bordo del famoso Barchett di Boffalora. Sostò quindi a Cassinetta di Lugagnano (dove una statua lo ricorda) e a Corsico, per riprendersi dalla febbre alta, in località Guardia di Sotto e qui venne eretta un’edicola in ricordo. Proseguì quindi il viaggio verso Milano, su di una lettiga. Nonostante il trasporto in barella, la febbre, sempre più alta, lo spense per sempre, all’età di soli 46 anni, la sera del 3 novembre 1584 a Milano; essendo spirato dopo il tramonto (precisamente alle 20.30), secondo l’uso del tempo venne considerato il giorno 4 come sua ricorrenza.

Il 7 novembre successivo, il cardinale Nicolò Sfondrati, vescovo di Cremona, poi papa col nome di Gregorio XIV, celebrò la prima messa in suffragio dell’anima del defunto arcivescovo; l’orazione funebre In morte e sopra il corpo dell’Illustrissimo Carlo Borromeo, cardinale di santa Prassede et arcivescovo di Milano venne tenuta da Francesco Panigarola, futuro vescovo di Asti. Lo stesso pontefice in carica espresse la sua profonda tristezza per la perdita del devoto prelato nel concistoro del 14 novembre del 1584. Il cardinale Valerio da Verona scrisse di lui che il Borromeo «fu un esempio di virtù, un esempio per i suoi fratelli cardinali di vera ed autentica nobiltà». Il cardinale Cesare Baronio lo definì «un secondo Ambrogio, la cui morte prematura, lamentata da tutti gli uomini di buon comando, ha inflitto una grave perdita alla Chiesa».

Nel suo testamento, san Carlo nominò suo erede universale l’Ospedale Maggiore di Milano. Dopo la sua morte, il suo corpo venne deposto nella cripta del Duomo di Milano dove ancora oggi si trova, mentre il suo cuore venne simbolicamente conservato nella basilica dei santi Ambrogio e Carlo al Corso a Roma, dietro l’altare maggiore.

Fu proclamato beato nel 1602 e fu canonizzato il 1º novembre del 1610 da Paolo V (Camillo Borghese); la ricorrenza cade il 4 novembre. Assieme ad Anselmo di Lucca è uno dei due cardinali nipoti ad essere stato canonizzato.

Nel terzo centenario della canonizzazione, il 26 maggio 1910papa Pio X scrisse l’enciclicaEditae Saepe in cui celebrò la memoria e l’opera apostolica e dottrinale di Carlo Borromeo. È considerato patrono dei seminaristi, dei direttori spirituali e dei capi spirituali, protettore dei frutteti di mele; si invoca contro le ulcere, i disordini intestinali, le malattie dello stomaco; è patrono della Lombardia, di Rovato, del Canton Ticino, di Monterey in California, di Salò, di Portomaggiore (Ferrara), di Rocca di Papa (Roma), Nizza Monferrato (Piemonte) e compatrono di Francavilla Fontana in Puglia.

Tra le chiese più famose dedicate a san Carlo Borromeo citiamo la romana San Carlo alle Quattro Fontane, eseguita su disegno di Francesco Borromini, e la Karlskirche di Vienna, progettata da Johann Bernhard Fischer von Erlach.

San Carlo è spesso raffigurato con degli emblemi caratteristici come il suo motto personale Humilitas (umiltà) e spesso è raffigurato con gli abiti cardinalizi, benedicente o nell’atto di comunicare gli appestati. Tra le caratteristiche fisiche che lo rendono inconfondibile nei ritratti anche d’epoca ritroviamo un naso molto pronunciato. Tra le opere pittoriche di maggior pregio che raffigurano il Borromeo, ricordiamo la serie dei Quadroni di San Carlo, esposti ogni anno da novembre a dicembre nel Duomo di Milano, grandi tele ad firma di alcuni tra i più famosi artisti del primo barocco lombardo milanese tra cui il Cerano, il Morazzone e Giulio Cesare Procaccini.

Clicca qui per proseguire su wikipedia.it

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...